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La conquista del mercato asiatico è possibile: ecco le strategie da usare

La conquista del mercato asiatico è possibile: ecco le strategie da usare

Non c’è alcun dubbio che il 2013 sia stato un grande anno per l’export del vino italiano grazie ad un’annata, il 2012, scarsa in quantità ma non in qualità, che fa registrare cifre record in termini di valore: oltre 5 miliardi di euro. Una reazione di tutto rispetto per il settore vinicolo alla crisi economica che ha investito il globo negli ultimi anni e che ha agganciato la ripresa grazie a quei mercati “traino” a cui i nostri operatori si sono orientati, vale a dire Stati Uniti, Canada, Svizzera e Regno Unito, meta prediletta per le bollicine made in Italy.

Ecco qualche cifra: +18% l’export degli spumanti con un valore pari a 735 milioni di euro; +6% dei vini in bottiglia fermi con un valore oltre i 3,5 miliardi di euro a cui si aggiunge il vino sfuso con oltre i 480 milioni di euro. Consolidati i mercati dell’Unione, cresce il Nord America, soddisfazione per le quote Extra europee ma quel +2,2 % della Cina, rispetto ad uno 0,6% di partenza nel 2000, lascia perplessi.

La scarsa presenza delle aziende italiane sul mercato asiatico è un demerito che le stesse si riconoscono: si paga il ritardo con cui sono partite e il fatto di aver speso tanti soldi in maniera inutile finalizzato al “vendere per vendere”. Da uno sguardo d’insieme si evidenzia che per molti operatori la Cina è un’opportunità da sfruttare ma non da sovradimensionare partendo dal tentativo di smontare l’immagine stereotipata che il Dragone ha dell’Europa: auto tedesche, moda italiana e vino francese. Ma c’è uno spiraglio all’orizzonte reso possibile da quei segni negativi nel bilancio dell’export francese verso “zia Asia”.

esame visivoDopo il boom del vino francese che ha riempito i magazzini fino a farli quasi esplodere, ora in giacenza senza destinazione, dove “la polvere si posa”, si contano i danni e si pensa alla ricostruzione. Tutti concordi col ripartire con il piede giusto e strategie di medio lungo termine, non più per “conquistare un mercato” ma per “costruire il mercato”. I presupposti ci sono tutti a cominciare da un cambiamento di visione da parte degli asiatici stessi che non vedono più il vino in quanto tale, o peggio come una forma di investimento, ma ridimensionano le scelte in base a un più razionale consumo, diffuso e maturo, fino a diventare quasi giornaliero. Un cambiamento che va affrontato con una trasformazione.

bicchiere tricoloreInnanzitutto a mio parere bisogna internazionalizzarsi, che non vuol dire solo esportare vino, ma creare un “sistema Italia” che unisca vino, cibo, appeal, cultura e immagine del nostro Paese come produttore, partendo dalla conoscenza dei comportamenti e delle abitudini di questo mercato. Il secondo step è quello di andare contro la cultura imprenditoriale italiana molto “individualista”; bisogna invece fare gruppo creando reti e strutture stabili in loco che promuovano il “marchio Italia” piuttosto che i singoli brand. In che modo? Attraverso un’opera di divulgazione che vede investiti i produttori in prima persona, che dietro la bottiglia sappiano mescere e raccontare il proprio vino ai F&B manager piuttosto che ai buyer e ai Sommelier. La comunicazione sul web per quanto efficace in un scambio economico globalizzato, non serve in mercato nuovo come quello attuale che assorbe tutto quanto gli viene trasmesso. Una crociata che le aziende possono affrontare da sole? No. Occorre un sostegno anche pubblico massimizzando la destinazione delle poche risorse disponibili; diversamente sarebbe difficile, o meglio, le aziende potrebbero avere anche un grande successo singolarmente ma sarebbe un successo aziendale e non di Paese.

Purtroppo in Asia, a differenza che in altre parti del mondo come negli USA e in Canada, non c’è stato il volano dell’immigrazione che aiuta. Il fascino dell’Italia è legato a stereotipi e il flusso turistico è ancora molto modesto soprattutto per quel che riguarda l’agroalimentare. Se il sistema riuscisse ad incanalare i fondi disponibili verso progetti di educazione alla cultura del nostro cibo e del nostro vino, creando modi e mezzi per portare gli operatori sul territorio, questo aiuterebbe in termini di ritorno quegli investimenti che le aziende stanno affrontando da sole. Gli investimenti potrebbero trasformarsi in programmi di formazione del personale sul luogo, come sommellier cinesi, oppure individuare vini e territori che possano fare da traino portando il concetto di “Paese Italia” nel mondo.

cincinaImparare dagli errori altrui è un altro punto da cui ripartire. Puntare su un diverso posizionamento del nostro vino, non pensare di competere con quello francese che comunque qui ha avviato la propria opera più di venti anni fa. Il fascino del lusso non è ancora tramontato ma viene ridimensionato per cui le nostre aziende saggiamente stanno pensando di non partire dal basso, commercializzando i cosiddetti “vini da prezzo” che sono quelli maggiormente diffusi tra la concorrenza, ma puntare da subito ad una fascia medio alta. Lusso a prezzi accessibili ma di grande qualità. Questo è anche coerente con il sistema industriale e produttivo italiano (con costi elevati) che non può scontrarsi sul piano del prezzo ma deve puntare alla qualità, alla amplificazione dei valori del proprio territorio e della grande variabilità del vigneto. Lo sforzo sarà dunque quello di associare la strategia Paese a quella di azienda.

Ce la farà il Sistema? Non sarà facile ma come squadra non c’è che da essere fiduciosi e tifare affinché le nostre aziende continuino a portare il nostro vino sulle tavole dei cinesi. Si può, si deve…

Pia Martino

 

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